Sentenza n. 65 del 2022

SENTENZA N. 65

ANNO 2022

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), come introdotto dall’art. 4-ter, comma 1, lettera d), del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, promosso dal Tribunale ordinario di Livorno, sezione civile, nel procedimento tra M. C. e altro, con ordinanza del 7 aprile 2021, iscritta al n. 121 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 7 aprile 2021, iscritta al n. 121 del registro ordinanze del 2021, il Tribunale ordinario di Livorno, sezione civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), come introdotto dall’art. 4-ter, comma 1, lettera d), del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, nella parte in cui non stabilisce che «il piano del consumatore possa prevedere, alle medesime condizioni, anche la falcidia e la ristrutturazione dei debiti per i quali il creditore abbia già ottenuto ordinanza di assegnazione di quota parte dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione».

2.– Il giudice a quo riferisce che, in data 26 ottobre 2020, i signori M. C. e M. G. depositavano presso il Tribunale di Livorno una proposta congiunta di piano del consumatore per la composizione della crisi da sovraindebitamento.

Il piano prevedeva l’impegno a corrispondere settantasette rate mensili, ciascuna di euro 200,00, destinate al soddisfacimento integrale dei crediti prededucibili e privilegiati (rate sino alla numero ventinove) e al pagamento (con le successive rate) del 18,64 per cento dei crediti chirografari.

2.1.– Il rimettente espone che, con provvedimento del 21 gennaio 2021, il giudice designato dichiarava inammissibile la richiesta di omologa del piano del consumatore, osservando che, in data 28 ottobre 2020, la società I. N. spa, titolare di un credito chirografario pari a euro 43.502,63, inserito nel piano, aveva ottenuto, dal giudice dell’esecuzione, un’ordinanza di assegnazione del quinto dello stipendio di M. C.

Il citato provvedimento di assegnazione, non impugnato e dunque divenuto definitivo, rendeva impossibile, ad avviso del giudice designato, l’approvazione del piano, atteso che nella procedura di sovraindebitamento non è prevista una sospensione automatica delle procedure esecutive, che, viceversa, opera nell’ambito del concordato preventivo, ai sensi dell’art. 168 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa».

Il rimettente riferisce, di seguito, che gli originari istanti proponevano tempestivo reclamo al Collegio contro il provvedimento che aveva dichiarato inammissibile la proposta di piano. In particolare, invocavano l’applicazione analogica dell’art. 44 della legge fallimentare, che rende inefficaci i pagamenti eseguiti dal debitore dopo la dichiarazione di fallimento. Tale argomento – secondo i reclamanti – consentirebbe l’approvazione del piano, la cui omologa farebbe poi cessare definitivamente il pignoramento, imponendo il pagamento del credito residuo secondo le condizioni previste dal piano medesimo.

2.2.– Il Collegio rimettente non aderisce alla citata ricostruzione e, viceversa, condivide l’impostazione del provvedimento reclamato, escludendo che la natura concorsuale della procedura del piano di ristrutturazione possa comportare di per sé l’applicazione analogica delle disposizioni dettate per il fallimento e, segnatamente, dell’art. 44 della legge fallimentare.

In particolare, il giudice a quo osserva che il citato art. 44 è diretta conseguenza del generale vincolo di indisponibilità di cui al precedente art. 42, laddove nella procedura da sovraindebitamento in esame non si verificherebbe, viceversa, alcuno “spossessamento” del debitore.

2.3.– Tanto premesso, il rimettente rileva che l’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012 contempla la possibilità che la proposta di piano del consumatore preveda anche la falcidia e la ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno. E che tale disposizione, in virtù del comma 2 del richiamato art. 4-ter del d.l. n. 137 del 2020, come convertito, può regolare anche le procedure pendenti alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

Tuttavia – secondo il rimettente – l’art. 8, comma 1-bis, pur essendo riferibile ratione temporis al giudizio a quo, non sarebbe ad esso applicabile, in quanto non disciplinerebbe l’ipotesi in cui un credito del debitore principale abbia formato oggetto di assegnazione giudiziale all’esito di una procedura di espropriazione presso terzi.

Tale norma, ad avviso del giudice a quo, non potrebbe disciplinare la fattispecie in esame neppure in via analogica.

Da un lato, infatti, la disposizione si riferirebbe in modo espresso alla cessione volontaria, così dimostrando che il legislatore, pur a fronte di una disputa interpretativa che riguardava entrambe le ipotesi, la cessione volontaria e l’assegnazione giudiziale, avrebbe inteso provvedere unicamente con riferimento alla prima.

Da un altro lato, «nel caso dell’assegnazione occorrerebbe privare di efficacia (non un precedente atto negoziale ma) un provvedimento giudiziale definitivo, conclusivo della procedura esecutiva già intrapresa», sicché un’interpretazione analogica urterebbe contro «il principio normativo di intangibilità degli atti esecutivi già compiuti ex art. 187-bis disp. att. c.p.c.».

2.4.– Tale insieme di circostanze induce il rimettente a ritenere contrario a ragionevolezza, in violazione dell’art. 3 Cost., che l’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012 limiti «la possibilità di falcidia e ristrutturazione ai soli “debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione” e non [riguardi] anche […] dei debiti per i quali il creditore abbia già ottenuto ordinanza di assegnazione di quota parte dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione».

3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare la questione non fondata.

L’Avvocatura ha, innanzitutto, osservato che le fattispecie poste a raffronto sono tra di loro diverse, posto che quella disciplinata nel comma 1-bis dell’art. 8 della legge n. 3 del 2012 concerne le cessioni del quinto su base volontaria, a garanzia di contratti di finanziamento in vista di una più certa estinzione dei debiti di restituzione, mentre quella oggetto del giudizio a quo è una cessione giudiziale, conseguente all’emanazione di un’ordinanza di assegnazione da parte del giudice dell’esecuzione.

Nell’un caso la possibilità concessa al consumatore di includere nel piano i debiti garantiti mediante la cessione del quinto si giustificherebbe in chiave di maggior tutela del consumatore, il quale potrebbe essersi determinato incautamente a contrarre la cessione del quinto e, dunque, attraverso il piano, potrebbe parzialmente rimediare a tale scelta. La cessione del quinto per via giudiziale, viceversa, rientrerebbe nel regime ordinario di composizione della crisi del consumatore e non vi sarebbe ragione per frustrare la tutela già pienamente ottenuta dal creditore, che si svolge sotto il controllo del giudice dell’esecuzione.

Tale diversità di ratio giustificherebbe, ad avviso dell’Avvocatura, la difforme disciplina e sarebbe, dunque, sufficiente a escludere la censura di irragionevolezza. Il regime differenziato sarebbe da ricondurre al ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, come confermerebbe la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale non si avrebbe violazione del principio di eguaglianza, allorché le fattispecie di cui si denuncia il trattamento diversificato siano tra loro disomogenee.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 7 aprile 2021, iscritta al n. 121 del registro ordinanze del 2021, il Tribunale ordinario di Livorno, sezione civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), come introdotto dall’art. 4-ter, comma 1, lettera d), del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, nella parte in cui non stabilisce che «il piano del consumatore possa prevedere, alle medesime condizioni, anche la falcidia e la ristrutturazione dei debiti per i quali il creditore abbia già ottenuto ordinanza di assegnazione di quota parte dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione».

1.1.– L’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012 dispone quanto segue: «[l]a proposta di piano del consumatore può prevedere anche la falcidia e la ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno, salvo quanto previsto dall’articolo 7, comma 1, secondo periodo». La disposizione, in virtù del comma 2 del richiamato art. 4-ter del d.l. n. 137 del 2020, si applica anche alle procedure pendenti alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.

2.– Il rimettente è stato chiamato a decidere in merito al reclamo avverso il provvedimento del giudice designato, che aveva dichiarato inammissibile una proposta di piano di ristrutturazione, comprensiva di un debito rispetto al quale il relativo creditore aveva già ottenuto, all’esito di un procedimento di espropriazione presso terzi, un’ordinanza di assegnazione del quinto dello stipendio del debitore principale.

Il giudice a quo osserva che l’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012 prevede la possibile falcidia e ristrutturazione dei soli debiti per i quali vi sia stata la cessione volontaria del credito, avente per oggetto il quinto dello stipendio (o del trattamento di fine rapporto o della pensione). Per converso, ritiene che la disposizione non disciplini l’ipotesi in cui un analogo credito del debitore abbia formato oggetto di assegnazione giudiziale all’esito di una procedura di espropriazione presso terzi.

In particolare, non ritiene possibile ampliare in via ermeneutica la portata precettiva della norma.

Da un lato, la disposizione censurata si riferirebbe in modo espresso alla cessione volontaria, così dimostrando che il legislatore, pur a fronte di una disputa interpretativa che riguardava entrambe le ipotesi, la cessione volontaria e l’assegnazione giudiziale, avrebbe inteso provvedere unicamente con riferimento alla prima.

Da un altro lato, «nel caso dell’assegnazione occorrerebbe privare di efficacia (non un precedente atto negoziale ma) un provvedimento giudiziale definitivo, conclusivo della procedura esecutiva già intrapresa», sicché un’interpretazione analogica urterebbe contro «il principio normativo di intangibilità degli atti esecutivi già compiuti ex art. 187-bis disp. att. c.p.c.».

3.– Tali motivazioni, unitamente alla ritenuta esclusione dal raggio di applicazione dell’art. 44 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa», della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento del consumatore, inducono il rimettente a ritenere contrario al principio di ragionevolezza, in violazione pertanto dell’art. 3 Cost., l’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012. La citata disposizione limiterebbe, infatti, «la possibilità di falcidia e ristrutturazione ai soli “debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione”» e irragionevolmente non includerebbe anche i debiti per i quali «il creditore abbia ottenuto ordinanza di assegnazione di quota parte dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione».

4.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare la questione non fondata.

L’Avvocatura ha, infatti, sostenuto la disomogeneità tra l’ipotesi della cessione volontaria del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione e la cessione dei medesimi crediti disposta da un’ordinanza di assegnazione del credito emanata dal giudice dell’esecuzione. Ne ha, dunque, inferito la non irragionevolezza del loro diverso trattamento.

5.– La questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata nei termini illustrati nella motivazione che segue.

6.– In via preliminare, questa Corte ritiene opportuno, ai fini dell’interpretazione dell’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012, delineare il quadro normativo nel quale si colloca la disposizione in esame e ricostruire la riflessione che ha condotto, con il d.l. n. 137 del 2020, all’inserimento nell’art. 8 del citato comma 1-bis.

6.1.– La legge n. 3 del 2012 – oggetto di successive modifiche – ha inteso, in generale, porre rimedio alle crisi da sovraindebitamento «non soggette né assoggettabili a procedure concorsuali» diverse da quelle che la stessa disciplina introduce (art. 6, comma 1).

In particolare, gli artt. 8 e seguenti della legge n. 3 del 2012, come modificati dall’art. 18, comma 1, lettera f), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, delineano uno strumento di composizione della crisi, il piano del consumatore, che consente a quest’ultimo di avanzare una proposta di «ristrutturazione dei debiti e [di] soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei crediti futuri» (art. 8, comma 1).

Il consumatore, assistito dall’organismo di composizione della crisi, ha facoltà di presentare una proposta che, ai sensi dell’art. 12-bis, comma 3, della legge n. 3 del 2012, può condurre all’omologazione, senza che sia richiesto l’accordo dei creditori, ancorché questi ultimi debbano essere informati della citata proposta e possano muovere contestazioni. Del resto, la loro soggezione al piano omologato viene controbilanciata dal necessario rigore con il quale il giudice è chiamato a verificare i presupposti di ammissibilità e di fattibilità del piano, e in ogni caso, «[q]uando uno dei creditori […] contest[i la sua] convenienza […], il giudice lo omologa se ritiene che il credito possa essere soddisfatto dall’esecuzione del piano in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria disciplinata dalla sezione seconda» del medesimo capo della stessa legge (art. 12-bis, comma 4, della legge n. 3 del 2012).

Come già sottolineato da questa Corte, la finalità della procedura è quella di «ricollocare utilmente all’interno del sistema economico e sociale, senza il peso delle pregresse esposizioni» (sentenza n. 245 del 2019), un soggetto – il consumatore – che, se sul piano contrattuale si connota per una debolezza derivante dalla sua asimmetria informativa, nel quadro della disciplina in esame, che presuppone la condizione patologica del sovraindebitamento, mostra anche i segni di una fragilità economico-sociale.

L’obiettivo di consentire la ristrutturazione del maggior numero possibile dei debiti spiega, del resto, la facoltà contemplata dal legislatore di falcidiare e di ristrutturare, pur con i limiti imposti dall’art. 7, finanche i debiti relativi a crediti muniti di garanzie reali (privilegi, ipoteche e pegni).

Per converso, nel testo originario della legge n. 3 del 2012, anche dopo le modifiche introdotte con il d.l. n. 179 del 2012, come convertito, mancava qualsivoglia riferimento ai debiti, la cui modalità solutoria o la cui garanzia fossero stati affidati alla cessione di un credito; e questo ha alimentato un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

6.2.– Occorre, a tal riguardo, precisare che la cessione del credito identifica il mero effetto giuridico del trasferimento del diritto di credito, che può dare attuazione a varie funzioni concrete.

In particolare, quando la cessione svolge una funzione solutoria, ossia integra una modalità di esecuzione diversa dall’adempimento, opera la disciplina di cui all’art. 1198, primo comma, del codice civile, secondo cui «quando in luogo dell’adempimento è ceduto un credito, l’obbligazione si estingue con la riscossione del credito, se non risulta una diversa volontà delle parti».

La cessione pro solvendo del credito, dunque, non è altro che una modalità di esecuzione della prestazione in luogo dell’adempimento che, sino alla riscossione, non estingue il debito, facendo persistere la responsabilità dell’obbligato principale (salvo quanto dispone l’art. 1267, secondo comma, cod. civ., al quale espressamente rimanda l’art. 1198, secondo comma, cod. civ.).

Tale perdurante responsabilità del debitore principale rendeva disarmonica la mancata inclusione, fra i debiti suscettibili di falcidia e di ristrutturazione, di quelli per i quali fosse stata disposta una modalità solutoria costituita dalla cessione del credito; e invero la medesima considerazione riguardava i debiti per i quali fosse stata prevista una cessione pro solvendo in funzione di garanzia.

Ove il debito nei confronti del creditore destinatario della citata modalità di esecuzione o beneficiario di tale garanzia fosse stato, infatti, sottratto alla possibile falcidia e ristrutturazione, il creditore cessionario avrebbe goduto del vantaggio di soddisfarsi in via esclusiva sul credito ceduto, potendo continuare ad avanzare pretese, in caso di mancato soddisfacimento integrale del suo diritto, sugli altri beni del debitore principale. In sostanza, l’esclusione dalla procedura concorsuale gli avrebbe garantito un trattamento privilegiato rispetto agli stessi creditori muniti di garanzie reali, in contrasto con la par condicio creditorum.

Le proposte di soluzione in via interpretativa del problema, unitamente agli auspici di un possibile intervento normativo, non ravvisavano, d’altro canto, un ostacolo alla possibile falcidia e ristrutturazione dei debiti in esame nell’efficacia traslativa della cessione del credito. Tale effetto riguarda, infatti, la modalità solutoria o l’attuazione della garanzia, sicché ben può l’obbligazione principale veder ridotta – tramite la falcidia – la sua entità, senza che ciò confligga con l’effetto traslativo del credito. Risulta semplicemente limitato, in maniera speculare, il quantum dovuto dal debitor debitoris al cessionario.

6.3.– A fronte del dibattito emerso con riferimento ai debiti da eseguire o da garantire con la cessione del credito, il legislatore è intervenuto, dapprima con il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), che ha profondamente mutato la disciplina del sovraindebitamento, contemplando espressamente – per quanto qui interessa – all’art. 67, comma 3, che il piano del consumatore (rinominato «piano di ristrutturazione dei debiti») «può prevedere anche la falcidia e la ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno».

Di seguito, in ragione del differimento dell’entrata in vigore della maggior parte delle disposizioni del d.lgs. n. 14 del 2019 (prima al 15 agosto 2020, poi al 1° settembre 2021 e da ultimo al 16 maggio 2022), il legislatore ha ritenuto di approntare un ulteriore intervento in via d’urgenza, finalizzato a riallineare la normativa meno recente alle innovazioni nel frattempo introdotte dal codice della crisi.

Si è giunti in tal modo al d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, nella legge n. 176 del 2020, che, proprio in sede di conversione, ha aggiunto con l’art. 4-ter, comma 1, lettera d), l’attuale art. 8, comma 1-bis, alla legge n. 3 del 2012. Tale disposizione dunque – con un contenuto ricalcato sull’art. 67, comma 3, del d.lgs. n. 14 del 2019 – stabilisce, come già precisato, che «[l]a proposta di piano del consumatore può prevedere anche la falcidia e la ristrutturazione dei debiti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto o della pensione e dalle operazioni di prestito su pegno, salvo quanto previsto dall’articolo 7, comma 1, secondo periodo».

Il legislatore ha, in sostanza, consentito la falcidia e la ristrutturazione dei citati debiti, senza imporre specifici vincoli o limiti legali, posto che l’inciso finale della disposizione è chiaramente riferito alle operazioni di prestito su pegno. L’art. 7, comma 1, secondo periodo, della legge n. 3 del 2012, che recepisce il rinvio, stabilisce, infatti, che «[è] possibile prevedere che i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca possono non essere soddisfatti integralmente, allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi».

7.– Tanto premesso, è possibile chiarire i termini dell’interpretazione della disposizione censurata che consentono di ritenere non fondata, nei sensi di seguito illustrati, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.

È sufficiente, infatti, lo strumento ermeneutico a includere nell’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012 l’ipotesi in cui la cessione del credito destinata a estinguere il debito costituisca l’effetto di un provvedimento giudiziale, ossia dell’ordinanza di assegnazione.

7.1.– La prima ragione, che induce il giudice a quo a escludere una possibile soluzione in via interpretativa del dubbio di irragionevolezza, attinge alla stessa formulazione testuale della disposizione che, secondo il rimettente, richiamerebbe in via esclusiva la cessione volontaria del credito.

7.1.1.– Tuttavia, se può ritenersi che l’accostamento, nell’art. 8, comma 1-bis, della cessione del credito al contratto di finanziamento sia subito evocativo di una cessione volontaria, d’altro canto, l’espressione cessione del credito, non altrimenti qualificata, non può certo a priori escludere una cessione coattiva del credito.

7.1.2.– Più in generale, è doveroso sottolineare, in considerazione della ratio stessa della disciplina, il tenore esemplificativo e non certo rigidamente tassativo della disposizione.

In primo luogo, sebbene l’art. 8, comma 1-bis, evochi una specifica fonte del debito da ristrutturare – ossia il contratto di finanziamento – sarebbe del tutto irrazionale, prima ancora che irragionevole, escludere dal piano di ristrutturazione debiti, rispetto ai quali abbia avuto luogo la cessione del credito, sol perché abbiano fonte in contratti diversi da quello di finanziamento.

In secondo luogo, la disposizione in esame richiama espressamente la cessione del quinto dello stipendio, del trattamento di fine rapporto e della pensione, vale a dire la cessione di crediti che solitamente offrono possibilità molto elevate di soddisfacimento, ma sarebbe addirittura paradossale che la norma non ricomprendesse (e, dunque, non consentisse la falcidia e la ristrutturazione di) debiti, la cui estinzione fosse stata affidata alla cessione di crediti futuri dalla solvibilità assai meno certa.

E ancora l’art. 8, comma 1-bis, per un verso, nell’evocare la cessione del credito, abbraccia tanto la cessione con funzione solutoria quanto quella con funzione di garanzia, ma, per un altro verso, non può che riferirsi alla sola cessione pro solvendo, posto che con una cessione pro soluto il debito sarebbe estinto e, dunque, non potrebbe operare alcuna falcidia.

Infine, come si è già anticipato, la disposizione censurata non evoca testualmente la mera cessione volontaria, ma la cessione del credito tout court, e dunque non può escludersi a priori un possibile riferimento implicito anche alla ipotesi della cessione coattiva del credito, di fonte giudiziale.

7.2.– Ciò premesso, occorre, tuttavia, considerare anche la seconda e più puntuale obiezione sollevata dal rimettente in senso contrario a una soluzione ermeneutica del problema.

In particolare, il giudice ritiene che la falcidiabilità e la possibilità di ristrutturazione del credito implicherebbero un «privare di efficacia (non un precedente atto negoziale ma) un provvedimento giudiziale definitivo, conclusivo della procedura esecutiva già intrapresa», sicché l’interpretazione, che lo stesso giudice a quo qualifica come analogica, urterebbe contro «il principio normativo di intangibilità degli atti esecutivi già compiuti ex art. 187-bis disp. att. c.p.c.».

Sennonché, non è condivisibile la tesi che differenzia l’effetto traslativo prodotto dall’assegnazione giudiziale del credito rispetto a quello scaturito da un atto di autonomia privata. Parimenti non coglie correttamente i termini del rapporto tra effetto traslativo e possibile ristrutturazione del debito il ritenere che ciò comporti lo scioglimento o la pura negazione di tale effetto, fermo restando che il problema atterrebbe comunque in generale all’effetto traslativo oramai prodottosi e non certo alla fonte da cui esso scaturisce.

7.2.1.– Deve, allora, in primo luogo, rilevarsi che l’effetto traslativo del credito, che deriva dall’assegnazione giudiziale, è il medesimo effetto che discende dalla cessione volontaria del credito in luogo dell’adempimento.

L’ordinanza di assegnazione, che conclude la procedura di espropriazione presso terzi e che determina la cessione coattiva del credito pignorato, non fa altro che avallare per via giudiziale, in mancanza di un previo negozio di cessione, l’iniziativa del creditore nella individuazione di una modalità di soddisfazione in chiave solutoria del proprio diritto. Il giudice dell’esecuzione, attraverso la richiamata ordinanza, non esercita alcun potere decisorio di tipo contenzioso, né attribuisce al creditore un nuovo titolo, ma si limita – dopo aver verificato la sussistenza dei presupposti previsti dall’art. 553 del codice di procedura civile – ad autorizzare il creditore ad avvalersi della citata modalità esecutiva.

Attribuire all’effetto traslativo derivante dall’assegnazione giudiziale una vincolatività differente rispetto a quella riconosciuta all’effetto della cessione volontaria sarebbe equivalente a ritenere che il trasferimento della proprietà attuato con una vendita forzata sia “più forte e vincolante” dell’effetto traslativo generato da un atto di autonomia privata. Ma così non è e traspare in modo evidente dagli artt. 2919 e seguenti cod. civ.

In particolare, l’art. 2925 cod. civ. stabilisce la regola generale per cui «[l]e norme concernenti la vendita forzata si applicano anche all’assegnazione forzata» e, nello specifico, l’art. 2919, nel suo unico comma, cod. civ. prevede, tra l’altro, che «[l]a vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione». Pertanto, l’assegnazione trasferisce il diritto di credito che spettava a colui che subisce l’espropriazione, come se quest’ultimo lo avesse volontariamente ceduto al proprio creditore.

La sola differenza che emerge fra cessione volontaria e assegnazione giudiziale del credito non attiene, dunque, all’effetto traslativo, ma semmai al tipo di cessione.

Nel caso dell’assegnazione giudiziale l’art. 2928 cod. civ., cui rinvia l’inciso finale dell’art. 2925 cod. civ., stabilisce che la cessione del credito disposta dal giudice è sempre pro solvendo e, dunque, sino alla riscossione del credito, non estingue il debito principale, il che giustifica la possibile falcidia e ristrutturazione della persistente situazione debitoria.

Viceversa, nel caso della cessione volontaria, l’art. 1198 cod. civ. fa salva, rispetto alla regola generale della cessione pro solvendo, la possibile deroga convenzionale.

In sostanza, la differenza tra le due tipologie di cessioni attiene solo al meccanismo pro solvendo, quello che giustifica una possibile falcidia e ristrutturazione del persistente debito e che sussiste sempre nell’assegnazione giudiziale e di regola nella cessione volontaria. Per il resto, l’assegnazione giudiziale non fa che produrre il medesimo effetto traslativo del credito e non ha alcun fondamento giuridico il ritenere che la diversa fonte incida sulla vincolatività di tale effetto.

7.2.1.1.– Né a una diversa conclusione può in alcun modo addivenirsi, avendo riguardo al profilo dell’opponibilità della cessione del credito.

Il tema è dibattuto in termini generali e non con riferimento alla fonte da cui deriva l’effetto traslativo del credito. Del resto, la stessa tesi intermedia tra quella della non opponibilità e quella dell’opponibilità erga omnes, vale a dire la tesi della Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 26 ottobre 2002, n. 15141), che plasma l’opponibilità sulla disciplina di cui all’art. 2918 cod. civ., lega il citato profilo alla durata della cessione (opponibile se inferiore ai tre anni) e, nel caso di una durata superiore, al rispetto di eventuali oneri pubblicitari, che si impongono agli atti di autonomia privata come ai provvedimenti giudiziali.

Peraltro, non può neppure tacersi che l’opponibilità ai terzi dell’effetto non inibisce comunque la falcidiabilità, ove solo si consideri che sono falcidiabili debiti relativi a crediti muniti di garanzie reali sicuramente opponibili ai terzi.

7.2.2.– Se, dunque, diversamente da quanto ritiene il giudice rimettente, l’effetto traslativo del credito e la sua opponibilità sono profili che si pongono nei medesimi termini sia che l’effetto derivi dalla fonte negoziale sia che discenda da quella giudiziale, parimenti si devono disattendere tanto le considerazioni che il giudice a quo svolge con riferimento all’incidenza della ristrutturazione del debito sull’effetto traslativo del credito, quanto le conclusioni che ne trae sul piano del giudizio di costituzionalità.

7.2.2.1.– È allora opportuno, innanzitutto, chiarire che, fintantoché il piano non viene omologato, i pagamenti eseguiti dal debitore ceduto sono certamente efficaci.

In questa prospettiva, deve confermarsi – come del resto sostiene anche il rimettente – la non applicabilità alla procedura concorsuale relativa al piano di ristrutturazione della disciplina di cui all’art. 44 della legge fallimentare, che rende inefficaci tutti i pagamenti eseguiti a partire dalla dichiarazione di fallimento.

Nel caso della procedura concorsuale in esame è, infatti, l’omologazione del piano che rende inefficaci gli adempimenti eseguiti in difformità rispetto al suo contenuto, in virtù di quanto dispone l’art. 13, comma 4, della legge n. 3 del 2012.

7.2.2.2.– Venendo poi a considerare il rapporto fra la cessione del credito e la ristrutturazione del debito, che può essere prevista dal piano omologato, si sono invero delineate diverse interpretazioni dell’art. 8, comma 1-bis.

La tesi che riferisce la ristrutturazione dei debiti previsti nell’art. 8, comma 1-bis, alla sola facoltà di falcidia preserva, a ben vedere, la modalità di esecuzione costituita dalla cessione del credito, sicché il problema di un presunto scioglimento della fonte dell’effetto traslativo, sollevato dal giudice rimettente, neppure si pone: la falcidia, infatti, determina unicamente una speculare riduzione del quantum dovuto dal debitor debitoris.

Quanto alla tesi secondo cui il piano di ristrutturazione può anche cambiare la modalità di soddisfacimento del diritto legata alla cessione del credito, essa, invero, seppure non ravvisa in tale modalità una limitazione al tipo di ristrutturazione, la considera comunque un profilo di cui il giudice deve tenere conto nella valutazione delle caratteristiche del debito da ristrutturare. Tra gli aspetti che connotano il debito, e che il giudice deve, chiaramente, ponderare nel valutare la fattibilità, l’ammissibilità e la convenienza del piano, vi è la stessa modalità con cui ne era stata disposta l’esecuzione o la garanzia, ossia la cessione del credito. Tale modalità può essere cambiata dal piano, con una modificazione che la sostituisce con una nuova modalità di soddisfacimento, ma tenendo conto di quella precedente, così come il piano prende in esame gli altri caratteri del debito, a partire dalla sua entità, senza che questo significhi sciogliere la fonte dell’originario debito che viene falcidiato. Del resto, gli stessi crediti muniti di garanzie reali possono essere soddisfatti con modalità diverse da quelle derivanti da tali garanzie, pur se in tal caso con i limiti legali disposti dall’art. 7 della legge n. 3 del 2012; né ciò equivale a negare l’effetto prodotto dalle garanzie medesime.

7.2.2.3.– Da ultimo – ed è il rilievo decisivo – il problema ermeneutico citato si pone in termini generali rispetto all’effetto traslativo del credito e, poiché prescinde dalla fonte da cui tale effetto scaturisce, non è idoneo a sorreggere il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal giudice a quo.

8.– In conclusione, è la stessa ratio dell’art. 8, comma 1-bis, della legge n. 3 del 2012 ad attrarre, in via ermeneutica, nel contenuto della norma qualunque debito, per il quale la modalità solutoria o la garanzia di adempimento siano state affidate alla cessione pro solvendo del credito, ivi inclusa l’ipotesi nella quale la cessione del credito sia derivata da un provvedimento giudiziale, anziché da un atto di autonomia privata.

La norma, così ricostruita, dà piena attuazione allo spirito della legge, finalizzata alla protezione di un soggetto contrattualmente e socialmente debole, qual è il consumatore sovraindebitato, nonché al rispetto della par condicio creditorum.

Al contempo, essa è conforme al canone dell’interpretazione sistematica, là dove si coordina con le disposizioni codicistiche sopra menzionate (supra punto 7.2.1.), che fanno discendere dal provvedimento giudiziale di assegnazione del credito il medesimo effetto traslativo che può scaturire da una cessione volontaria.

Il complesso di ragioni teleologiche e sistematiche, sopra evocate, porta, dunque, alla luce il significato normativo conforme al parametro assiologico dell’art. 3 Cost.

Si deve, allora, concludere che la questione non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, avendo questa Corte più volte sottolineato che l’incertezza interpretativa e il dubbio di legittimità costituzionale si dileguano «una volta che si sia adottato, quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che rende la disposizione conforme a Costituzione» (sentenza n. 206 del 2015, nonché negli stessi termini, sentenze n. 198 del 2003, n. 316 del 2001 e n. 113 del 2000).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), come introdotto dall’art. 4-ter, comma 1, lettera d), del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Livorno, sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 10 marzo 2022.